“Lé, bongiorno! Ha dormito? Che voi pe’ ccolazione? c’è i’ latte coi corne flasc, l’pane trusciato col pomodoro o le nastrine...”
Ho 24 anni, sono una donna fatta e finita. Ma non importa quanto tu abbia lottato per la tua indipendenza e autonomia, niente impedirà a tua nonna di preoccuparsi della tua colazione.
“C’è anche ‘l prosciutto tirato, quello bono che ti garba…”
E che non mangio da quasi 10 anni, ma questa è un’altra storia.
La abbraccio da dietro, baciando la sua schiena grande mentre farcisce la faraona.
Nonna Rosy ha forme botticelliane, colori ariani, poche rughe sul volto arrossato e il pratico cipiglio di chi sta portando a termine un compito difficile.
“Me l’ha portata Tonio ier mattina, vedi… Bisogna sistemalla, che a pranzo viene anche ‘l Zi’ Carlo…”
Distolgo lo sguardo da quello che era un tempo un povero uccello, ma non dico niente. Il vegetarianesimo non è concepito qui.
“Cicci! Ahah!”
Mio nonno entra con un cesto di vimini e la faccia sorridente.
Eccolo, il capostipite della famiglia, coi baffi a spazzola e i capelli rasati. Un animale mitologico a metà tra il Kaiser e l’omino Michelin.
Ma con un sorriso talmente coinvolgente da aver meritato l’appellativo di Santa Klaus in summertime.
Ha la camicia macchiata e le scarpe sporche di terra, che sparge immancabilmente in tutta la cucina.
“Sandro, ma c’ha fatto?” Tuona la nonna, ma lui non l’ascolta.
Appoggia il cesto sulla sedia, mi prende il viso tra le sue manone ruvide e mi da un bacio sulla fronte.
“Guarda, dice poi con gli occhi pieni d’orgoglio, t’ho portato i pomodorini, quelli dell’Orto!”
Il cesto è carico di piccole pepite rosse.
Ha ragione a essere orgoglioso. Perché su questo scoglio di terra in mezzo alla vallate toscane, il sole batte sempre troppo tiepido. Ma lui non demorde, si spacca la schiena nell’orto e ci coltiva i datterini.
“Perché a tua nonna piacciono di più – continua- ci fa un sughetto....”
Dio, quanto mi siete mancati. Lo penso con gli occhi lucidi ma non dico niente, perché so che sono loro a soffrire di più per la lontananza. Studio a Roma, tre ore di bus, ma non vengo mai a salutarli. Faccio due lavori, e il tempo è quello che è.
Metto in bocca un paio di pomodorini ed esco in terrazzo.
Questo posto mi ricorda a cosa servono gli occhi, e perché possiamo vedere da lontano. Per permetterci di provare meraviglia.
“Ah, guarda che splendore!”
Nonno Sandro mi mette un braccio intorno al collo, mentre con l’altro mi mostra la vallata con fare da anfitrione. La conosco bene, ma non ne avrò mai abbastanza.
“Che si perde ‘l Teo, eh?”
Già, ‘l Teo non è voluto venire. Ha preferito restare in città, a studiare, ad acquisire conoscenza. Io, invece, sono tornata per fare il pieno d’amore, nel posto in cui sono più felice al mondo.
“Ma chissà se n’ America c’hanno posti belli così…”
“No, Nonno, non penso proprio. Ma te lo farò sapere.”
“Eh, proprio.”
Perchè io sto partendo. Da lì a dieci giorni sarò su un aereo, diretta a Boston per lavorare e completare la tesi.
Il biglietto di ritorno indica una data lontana che, con la giusta dose di fortuna, potrebbe non arrivare mai.
“Stai attenta lì, Cicci.”
Non dico niente e faccio un segno col capo.
Ho paura tutte le volte che me ne vado. Non per me, intendiamoci. Ho un’anima raminga che segue il vento.
Ho paura di non poter più ritrovare questi due pilastri che mi hanno cresciuta.
Chiudo gli occhi e inspiro l’aria fresca di montagna. Dalla cucina sento arrivare i loro battibecchi da vecchi commilitoni.
Sorrido.
Chissà se il cuore è fatto della stessa materia dei sogni.
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Grazie di Cuore.
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